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Abitare il mondo

 

Il mondo gli è cresciuto dentro. È entrato nella sua casa. Lui pressoché inconsapevole. L’abitante del mondo, oggi, non è un navigatore che, lasciati gli ormeggi sicuri, si avventura alla scoperta dell’ignoto. Un giramondo si sarebbe detto un tempo. Al contrario, è una sovrabbondanza di informazioni e conoscenze che dal mondo va precipitando nel suo sentire e genera molte delle sue paure, dei suoi bisogni e dei suoi desideri e orienta, quindi, i modi del suo abitare.

E’ questo l’incipit del primo capitolo di “Geocittà”, un mio testo recente che raccoglie alcune riflessioni sul rapporto tra architettura e città nella contemporaneità; frutto anche delle esperienze condotte in questi anni preziosi nella scuola di Pescara.

Ci si deve chiedere, di fronte ai profondi cambiamenti che scuotono il mondo, in che modo, oggi, si abita, nello stesso tempo, un “luogo” e il “globo”. E come la consapevolezza di questa sempre più evidente condizione può indurre alcune opportunità e necessari cambiamenti per il progetto di città. E’ un tema noto e ricorrente che non appare, tuttavia, aver ancora sviluppato tutta la potenza trasformativa che implica. Specialmente ora in cui, nel tempo/spazio della globalità, si veicolano, quasi istantaneamente, immani problemi e rischi (guerre, catastrofi, migrazioni, rischi ambientali e sanitari, crisi economiche) che spingono a rinchiudersi, a erigere inutili muri, a separarsi, in qualche modo, dal mondo; ma si aprono anche straordinarie opportunità di crescita e di sviluppo che, però, non si distribuiscono in modo equivalente, contribuendo così all’aumento delle disuguaglianze e dei conflitti.

E’ una condizione che le usuali politiche urbane e l’armamentario tradizionale del progetto di città non hanno saputo efficacemente interpretare. Soprattutto perché applicati essenzialmente alle “cose”, ai loro aspetti metrici ed economici e non a quelli valoriali, che gli “abitanti”possano riconoscere come propri; anzi contribuire ad individuarli, così da essere pienamente coinvolti, come necessario, nelle scelte.

Occorre quindi ridefinire il progetto urbano, non come una proiezione al futuro di prefigurazioni definite rigidamente e riferite essenzialmente ad una organizzazione, per quanto ampia, di “oggetti”, quanto come l’attivatore di un plurimo processo dialogico di trasformazione dei contesti.

Si deve, a tal fine riconsiderare il ruolo della forma, nelle diverse fasi del processo, quale strumento indispensabile per consentire di operare le diverse scelte,  con la consapevolezza delle loro conseguenze configurative. Sono forme “tentative”, programmaticamente aperte,  per produrre immaginari che servono a scorgere ed attivare le qualità potenziali della stessa essenza ambigua della realtà contemporanea – discontinua, multiscalare  e polimaterica -  da spingere verso una visione d’insieme, da confrontare e condividere, in cui rispondere alla necessità di conciliazione tra cosmopolitismo e radicamento.

Per questo può essere utile una definizione come quella di geocittà. Perché è un termine polisenso: suggerisce nello stesso tempo una condizione – essere, per certi versi, l’intero globo una città -, ed una opportunità, offerta dalla sua stessa forma e materia, per cui ogni città deve rifondarsi sulla“terra/terreno”da usare in tutto il suo spessore: prima fondamentale infrastruttura da mettere in opera per conferire equilibrio e qualità alla vita urbana.

 

Pepe Barbieri.

 

 

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