ADRIATICO
- WOO intervista Giovanni Vaccarini -
W - Oggi pomeriggio abbiamo partecipato e visitato i tre padiglioni promossi dall’ordine degli architetti all’interno della manifestazione “open”. Come può questa iniziativa influire sulla visione dell’architettura in generale da parte del grande pubblico?
GV - Bella domanda! Innanzitutto è un’occasione per incontrare persone, come vedi qui c’è questo aperitivo, ci si incontra, ci si conosce, non tutti sono architetti, per fortuna. Questa è l’iniziativa che ha fatto l’ordine di mettere questi tre stand sul lungo mare, ed è sicuramente un modo per accorciare queste distanze, chi passa non può fare a meno di vederli, di chiedersi cosa c’è, entrare, guardare dei progetti, poi magari nascono scintille oppure no; il tentativo è questo, anche se è un piccolo tassello, un inizio.
W - Qual è il contributo che Pescara secondo lei può dare nel far parte di questo grande mondo unitario dell’Adriatico?
GV - Il contributo di Pescara e un grande contributo, ci dobbiamo credere, la cosa importante è pensare che le architetture possano accadere ovunque e non solo a Roma o Milano, perché le architetture accadono dove noi siamo in grado di farle accadere. Noi non solo come architetti, ma come collettività perché ogni buona architettura nasce da un buon architetto, un buon committente (fondamentale la figura del committente) e un buon costruttore, almeno queste tre figure devono lavorare insieme. Ad oggi in parte un po' Pescara da già questo contributo, girando per la città un po' di architetture si iniziano a vedere.
W - In università ci hanno sempre insegnato che fare buona architettura vuol dire progettare in relazione al territorio. Nelle sue architetture sono sempre evidenti la lettura del luogo e lo studio del contesto. Architettura e città diventano inscindibili possiamo vederlo chiaramente anche nel nuovo edificio della scuola Giuseppe Mazzini. Tornando quindi alla sua maniera di progettare quale elemento è indispensabile andare a considerare per coniugare perfettamente le due cose, architettura e città.
C’è un metodo per non sbagliare l’inserimento di un’architettura in un contesto? Qual è la prima cosa che lei studia quando deve insediare un nuovo progetto?
GV - Io credo che sia una questione di ascolto, detta in maniera molto sintetica. Ci sono da ascoltare delle cose, ed essere disposti ad ascoltare, spesso tutti noi siamo troppo orientati a fare e a parlare e non ad ascoltare e quando dobbiamo ascoltare un po’ ci annoiamo; ma non ascoltare solo ciò che ci dice la signora Maria, ascoltare quello che ci dice il territorio, quello che ci dice il committente, quello che ci dice il costruttore, quello che ci dice magari anche per trasposta persona il tipo edilizio che andiamo a progettare. Dobbiamo essere in grado ad ascoltare e di trasporre e tradurre questi elementi di imput in architetture senza forzare la mano. Tutti noi ci innamoriamo di architetture, di un materiale, e soprattutto quando si è giovani nei primi progetti, cerchiamo di mettere di tutto, e in quel momento stiamo già sbagliando.
L’università tenta di mettere tante cose insieme perché non ha scelta, spesso i corsi sono troppo brevi, i corsi durano mesi, mentre i progetti durano anni, spesso si è costretti a farli in tempi molto rapidi; tutti gli architetti che arrivano nel nostro studio alle prime armi spesso hanno il problema di non governare l’architettura, sono tutte architetture fatte con photoshop e illustrator e non governate a livello di pensiero, il disegno è un momento per mettere su carta l’architettura che abbiamo in testa così come la scrittura lo è per uno scrittore, deve avere una storia, altrimenti c’è il rischio che scrivi delle frasi tanto per scriverle, e questo rischio è fortissimo. Poi c’è un tema di strumenti proprio di studio, l’architettura non è solo empatica l’architettura è una cosa in cui devi studiare, devi studiare anche le cose che sembrano non avere nulla a che fare con l’architettura ma che hanno a che fare con la normativa, la scienza dei materiali, ma sono elementi importantissimi.
W- Il suo progetto Riviera 107 è un intervento di rigenerazione urbana. Questa palazzina dal momento che è inserita in un contesto del tutto compromesso, molto fitto e antropizzato come può divenire singolarmente il punto di forza di tutto il contesto?
GV - Evidentemente spesso ci ritroviamo ad intervenire in tasselli che sarebbero troppo piccoli rispetto a quello che vorremmo fare, però il nostro committente richiede quell’intervento; la nostra ambizione e ciò che proviamo a fare è far si che quell’elemento sia un fulcro che poi si irradia nel contesto, come quando tiri una pietra in uno stagno fa un buco piccolo ma che genera un riverbero. Questo è quello che proviamo a fare, poi qualche volta ci riusciamo qualche volta no, qualche volta il contesto recepisce qualche volta no.
Intervista a cura di
Anna Di Matteo _ Laura Ganimede _ Marigiusi Pacifico