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Le utopie necessarie

Nel 2005 la Mostra Sensations urbaines al CCA di Montréal, metteva in scena un modo differente di guardare alla città e di percepirla. Lasciati fuori canoni e princìpi dell’urbanistica tradizionale, entravano in campo i sensi: ascoltare, toccare, odorare, percepire la città da nuove angolazioni.

Avete mai notato come sono diverse le città al buio?

Come è affascinante la trama di linee luminose che si vedono dall’aereo quando si atterra di notte?

Vi siete mai soffermati sul brusio di fondo della metropoli?

O sui rumori assordanti?

L’avete mai percorsa a piedi lasciando andare il passo e

seguendo più l’intuito che la mappa,

esplorando un itinerario non programmato per strade mai battute?

La geografia dei sensi descrive una città diversa: è la nostra città, quella che si incide nel ricordo come una esperienza emotiva, privata e non replicabile.​

Un altro libro, precedente di pochi anni ma non così distante dal clima culturale d’inizio millennio, (Storia del camminare di Rebecca Solnit, 2002), si soffermava sul senso del camminare a piedi: “uscire da uno spazio chiuso ed iniziare a camminare nel mondo, nelle città e nelle campagne , in mezzo ad una marcia di protesta o a un pellegrinaggio..” . Anche in questo caso si descriveva il camminare come un errare vagando: un procedere a zig zag , come nelle Promenades descritte da Stendhal nel suo diario romano : tracce libere di passi che incrociano i percorsi che la città offre. Non è un caso che in quello stesso anno fosse stato proiettato, a proposito del rapporto Architettura e Media

(Intimacy , nel 2002 a cura di iMage), il video di Michaela Frühwirth su Calcutta: “Penso alla città come ad una sottile geografia di sensi - scriveva l’artista fotografa e videomaker- penso alla città che acquista significato attraverso le esperienze e le azioni di chi la abita”.

La città veniva percorsa a piedi, le riprese erano un piano sequenza continuo tenuto all’altezza di uomini rannicchiati in ripari di pietra: camminare a piedi era nella storia narrata dalla Frühwirth una forma elementare e primitiva di esperienza.

La condizione di insicurezza che possiamo rileggere in questi pochi indizi, non ci ha abbandonati del tutto. C’è una sostanziale resistenza della natura antropologica dell’uomo, di fronte alla progressiva virtualizzazione dell’era digitale e ad ogni forma di intelligenza artificiale che non sia controllabile. C’è il ricorso a forme elementari di percezione dello spazio e la rivendicazione del valore dei sensi. Sentire e sentirsi, percepire e percepirsi, muoversi nello spazio nella consapevolezza di poterlo conformare e modificare, ci fa sentire ancora a nostro agio . Percorrendolo, abitandolo come un abito su misura, ma reinventandone al tempo stesso le traiettorie spaziali, cerchiamo implicitamente di appartenervi, di comprenderlo appieno e di realizzare, anche attraverso l’intreccio delle relazioni personali, il nostro microcosmo di felicità privata e provvisoria. E’ una forma di conoscenza e sappiamo che la condizione di familiarità, di appartenenza, oltre che di esperienza emotiva ed estetica hanno qualcosa in comune , se non proprio con la felicità , almeno con una condizione di momentaneo benessere . Le architetture (e la città) sono innanzitutto esperienza dello spazio e teatro delle relazioni che di volta in volta si determinano fra cose e persone. L’architettura o la città che non interagiscano con la vita, sono opere mute, infelici. Le città sono la scena su cui scorrono i fatti della quotidianità e degli eventi eccezionali, sono lo spettro delle nostre emozioni e del nostro intelletto. Senza questa completezza le città (le architetture) sarebbero macchine celibi e perderebbero il loro senso.

Ma d’altra parte, quando noi siamo pienamente felici?

Può l’architettura interagire o influire su questa condizione?

Può farlo in modo duraturo?

Sono domande cui è difficile dare una risposta. Il concetto di felicità è di per sé impalpabile, sfuggente e soggettivo, come il concetto di bellezza.

L’architettura è un mezzo che vorrebbe garantire a tutti maggiore benessere ma non è l’unico; e l’architetto è un mediatore, un autore, un visionario che costruisce utopie necessarie.

Carmen Andriani

 

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