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Luigi CAVALLARI

Qual è il primo ricordo che le viene in mente legato alla facoltà di architettura di Pescara? 

 

Il primo è un vivido ricordo visivo di natura assolutamente personale, quando nel lontanissimo 1972, giovane architetto da poco laureato, scesi dal treno che in oltre quattro ore mi aveva portato da Roma nella allora per me sconosciuta Pescara e, accompagnato dal mio amico Nanni Guazzo, passeggiando per il Lungomare e il Portocanale, arrivai in una folgorante mattina di primavera fino alla facoltà, che era allora situata in una improbabile palazzina sul ponte della ferrovia.

 

 

Uno dei fenomeni che ha interessato la facoltà di architettura di Pescara fin dalle sue origini è stato quello della Tendenza. Che cosa è la Tendenza, e cosa ha rappresentato per lei?

 

La Tendenza è stata per me la scoperta di Pescara. La nostra facoltà è nata, alla fine degli anni ’60, sull’incontro culturale di due grandi personaggi che hanno contribuito a fondarla, Aldo Rossi e Eduardo Vittoria. Aldo Rossi, il più genuino interprete di quella che poi fu chiamata la Tendenza, era portatore di una visione dell’architettura ideologicamente e razionalmente fondata, con le certezze, le rigidità e le esclusioni che questo comportava.

Eduardo Vittoria, che insegnava la tecnologia e che è stato il mio maestro, era reduce dalla fondamentale esperienza olivettiana ed aveva una visione del costruire di tipo assolutamente  sperimentale, aliena da ogni tentazione ideologica.

La differenza tra le due impostazioni fu plasticamente evidente nella XV Triennale di Milano del 1973, in cui la Sezione italiana curata da Vittoria (“Lo spazio vuoto dell’habitat”) cui ebbi la fortuna di partecipare, si contrappose, a pochi metri di distanza, alla mostra curata da Aldo Rossi sull’Architettura razionale. Possiamo senz’altro affermare che in quegli anni a Pescara si contribuiva ad affermare un buon livello di riflessione e ricerca sull’architettura, grazie alla presenza nelle materie compositive dei docenti che negli anni successero ad Aldo Rossi, come Giorgio Grassi, Rosaldo Bonicalzi, Antonio Monestiroli, Adalberto Del Bo, Gianni Braghieri, Carlo Manzo, Agostino Renna e, nelle materie tecnologiche, alla presenza di Franco Donato, di Augusto Vitale, di Nanni Guazzo, di Michele Platania. Naturalmente, diverso è il peso della componente compositiva rispetto a quella tecnologica, ma in quegli anni la facoltà di Pescara è stata culturalmente viva grazie al confronto tra l’aspirazione alla regola della Tendenza, e la “fantasia progettante” di Eduardo Vittoria.

 

 

Cosa pensa di aver lasciato in questa facoltà?

 

Non so se ho lasciato qualcosa, non sta a me dirlo, ma a me questa facoltà ha lasciato moltissimo: quando incontro qualche ex-studente, che mi dice che da me ha imparato qualcosa, penso di non aver sprecato questi tanti anni. A volte però mi chiedo, andando in giro per Pescara, se questa città è così per colpa nostra, o malgrado noi.

 

 

Nella sua carriera ha affrontato realtà accademiche diverse. Esistono dei caratteri distintivi riconoscibili nei diversi atenei, e se si quali sono?

 

Ho sempre insegnato a Pescara, quindi non conosco a fondo le realtà degli altri atenei, anche se naturalmente ne ho frequentati parecchi. Posso comunque affermare che ogni volta che abbiamo presentato i lavori dei nostri studenti in altre sedi, non abbiamo mai sfigurato.

 

 

Qualora dovesse tornare ad insegnare a Pescara, quali esperienze fatte cercherebbe di introdurre nella realtà del Dipartimento di Architettura?

 

Insegno ancora a Pescara, nel corso di Ingegneria delle costruzioni. Se potessi dare un suggerimento al Dipartimento di Architettura, direi di potenziare le esperienze di interazione tra le competenze delle composizioni, delle tecnologie  e delle tecniche, così come abbiamo cercato di fare negli anni scorsi nel laboratorio di laurea “Progetto e costruzione” insieme a Filippo Raimondo. Penso sia stata una esperienza preziosa, che varrebbe la pena continuare, sulla linea di contrastare la naturale e pericolosa tendenza al formalismo accademico, proprio degli architetti, e l’altrettanto naturale tendenza allo specialismo acritico, proprio degli ingegneri.

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