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Parola d’ordine: integrazione

 

Molti progetti mi hanno in qualche modo condizionato e hanno contribuito alla mia formazione, sia da studente sia da docente. Questi progetti non sono, in linea di massima, riferiti a una singola architettura, ma a interventi complessi che riguardano porzioni urbane e che si confrontano con vaste aree, sulle quali promanano i loro effetti. Penso ad esempio al progetto della Villette di Tschumi, uno dei miei preferiti, penso al programma complessivo della Darsena di Ravenna, penso al progetto dell’High line, con la sua capacità di coinvolgere una vasta porzione di una zona molto degradata di New York e di innescare un processo imponente di rigenerazione urbana. Penso all’interessantissimo intervento di Praça das Artes a San Paolo del Brasile. Ma, ancora, mi torna alla mente la Promenade plantée parigina, il Madrid Rio dello studio West 8 o il Millennium park  di Chicago; penso ai progetti per Battery Park o al Parco di Ibirapuera o al Tianjin Bridged Gardens. Insomma, penso a progetti “corali” che hanno la capacità di coinvolgere competenze e punti di vista diversi, capaci di confrontarsi con le stratificazioni della città[1].

Tuttavia,  un progetto, che sto seguendo da alcuni anni, mi ha influenzato forse più di tutti e ha un po’ modificato la mia vita: si tratta del programma di riqualificazione della città informale. In realtà più che un progetto è una tendenza, un settore disciplinare, in costante crescita. Nel suo significato più profondo, oltre a rispondere a quei requisiti d’integrazione tra parti di città di cui parlavo, ha, almeno dal mio punto di vista, un valore etico che dovrebbe essere sempre presente nell’impegno di un architetto. Ritengo, infatti, che l'architetto, oltre a (dovere) essere un "fine intellettuale" (questo è il compito che la società gli riserva) , ha anche un compito sociale: elaborare proposte per risolvere le contraddizioni urbane che si manifestano nella materializzazione dei tessuti  insediativi. La questione dell'insediamento informale è certamente una di queste.  

Il progetto a cui mi riferisco è dunque un progetto disciplinare ma anche sociale, orientato ad affrontare uno dei maggiori problemi presenti nel panorama urbano attuale (ne parla con approfondimento un'ampia parte della letteratura urbanistica, da Planet of Slums di Davis al recente La città dei ricchi e la città dei poveri, ultimo libro di Secchi, per non parlare della "più tradizionale"  produzione di romanzi).

Di recente ho avuto modo di affrontare da vicino la questione della città informale in una serie di ricerche. Si tratta di un percorso nato quasi per caso durante un viaggio in Brasile fatto con Carlo Pozzi presso l’Escola da Cidade di San Paolo.  Durante questo viaggio c’è stato l’incontro, a Florianópolis, con un amico (possiamo definirlo così) di Carlo: padre Vilson Groh, impegnato con grande efficacia nella lotta per i diritti degli ultimi.  È stato lui che, in quell’occasione, mi ha invitato a riflettere sul significato dell’insediamento nelle favelas, un modo di affrontare il problema dell’abitazione per una popolazione che ha una scarsa o nulla capacità di accedere al mercato immobiliare primario.

Questo tipo di approccio consente di mettere a sistema diversi interessi di ricerca.  Il fuoco principale di questo intreccio sta nel modo in cui interagiscono le questioni ambientali, sociali, di qualificazione dello spazio collettivo e altro ancora. Ai rischi ambientali[2] si aggiungono i rischi di carattere antropico, dalla riduzione della diversità biologica, al sovraccarico di rifiuti, e altro ancora, fino ad arrivare ai rischi sociali, generati dall’addensamento di persone in condizioni d’indigenza, inevitabilmente sottoposte al ricatto di organizzazioni criminali.

Il progetto per le favelas, allargatosi poi fino a divenire lo sguardo più complessivo sulla città informale, concretamente espresso nel “Laboratorio città informale” del Dipartimento di Architettura, assume al suo interno tutti questi temi. E’ questo certamente il progetto che mi ha più segnato, perché mi ha costretto a confrontarmi materialmente con una serie di problemi che sono oggi lontani dalla città europea, una città che anche nelle parti più disagiate, salvo alcune piccolissime e invisibili nicchie di indigenza totale, non presenta i caratteri dell’insediamento informale.

Dal punto di vista disciplinare, affrontare un tema di riflessione così ricco di suggestioni ha influito, nelle inevitabili contaminazioni, sul mio modo di interpretare quei progetti di cui parlavo all’inizio: non basta pensare al progetto come strumento di beautification, ma occorre anche pensarlo come strumento di miglioramento sociale. In fondo, le radici dell’urbanistica sono proprio in questo, in una tensione morale dell’architetto verso una migliore condizione di vita delle collettività.

 

 

 

[1] Questo ovviamente senza nulla togliere agli splendidi progetti di architetture che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita.

 

[2] In particolare: la pericolosità, ovvero le condizioni geomorfologiche e idrografiche, l’esposizione, cioè la presenza di manufatti e funzioni in luoghi ritenuti pericolosi, e la vulnerabilità, quanto il patrimonio esposto possa essere danneggiato in relazione alle condizioni di pericolosità naturale (terremoti, inondazioni, smottamenti e frane, ecc.).

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