top of page

ADC - L'attitudine del suo studio non è puramente architettonica; spazia dall'architettura stessa, al disegno industriale, dalla grafica per cataloghi e siti web ai negozi e allo yacht design, nonostante questo approccio si definisce un architetto, un designer o magari una figura nuova?    

 

PL - Forse una figura antica, ma se mi devo definire in qualche modo, mi definisco intanto come essere umano, che è la cosa che mi interessa di più e se proprio mi devo prendere una targa, Architetto. Però sono quietamente schizofrenico, quindi a seconda di cosa devo fare, gioco ruoli differenti. Lo studio è multiculturale. Lo studio è un assemblaggio di saperi differenti, è chiaro poi che in uno studio per poter sopravvivere abbiamo scelto dei gruppi professionali in grado di lavorare in un certo modo, ci sono: designer, architetti, interior, grafici, però gli apparati creativi si mischiano. Sono fermamente convinto che tutto funziona se l’apparato intellettuale, è un apparato del tipo umanistico, e da lì non transigo.

Lo studio non è italiano e più del 50% delle persone non sono italiane, quindi noi ci muoviamo con un apparato anche intellettuale molto differente. Devo mettere assieme la mentalità di una cultura che arriva dall’estremo oriente, come quella giapponese, con invece quella iper-cinica che arriva dagli Stati Uniti. Tutto quello che devo muovere è uno studio che abbia, quelli che si chiamano schemi culturali molto ampi, e voglio rimanere lì.

ADC - All’interno del suo sito, nella sezione philosophy, troviamo delle parole chiave: Experiment, People e In Progresso, è da queste 3 parole che si sviluppa ogni suo progetto?

 

PL - Ogni volta che noi ci muoviamo in un mondo che è quello della progettazione, quando ragiono per me stesso, se mi manca questa virtualità che è l’esperimento, se mi manca la quotidianità della progressione, la misura umana, non c’è progetto che tenga. Per ogni scala se mancano questi 3 elementi, ma soprattutto un modello sperimentale, secondo me è fondamentale, altrimenti faccio un oggetto che in qualche maniera è solo corretto da un punto di vista stilistico, che è più che ragionevole, ma non è quello che mi interessa. Infatti, quando faccio un progetto che si avvicina troppo al modello stilistico e lascio perdere la prima parte, di questa specie di salto del vuoto nelle nuove esperienze, questi progetti, ai miei occhi, lasciano il tempo che trovano..

 

ADC - Mi aggancio a questa risposta per chiederle dell’errore, al quale lei dà molta importanza nella fase della progettazione?

 

PL - L’errore è cruciale, fondamentale, per comprendere il progetto. In maniera molto cruda, il design industriale funziona con i prototipi, e i prototipi, sono gli errori. Sennò si chiamerebbero in un altro modo.

 

ADC - Alla fine di tutti questi prototipi, arriva ad un prodotto finale, che lei stesso afferma essere un prodotto scomodo, imperfetto. Perché rende volutamente imperfetto un suo oggetto?

 

PL - E’ una scala, è la mia scala di linguaggio, poi in realtà non faccio le cose così scomode come le racconto, le case non sono così scomode, gli edifici non sono così scomodi, gli oggetti che disegno non sono così scomodi, però è una specie di piccolissima rivolta, se vuole, anche abbastanza infantile, però abbastanza precisa, attorno a questa idea fallata della forma-funzione.

I tedeschi la stabilizzano quasi come modello intellettuale durante il Bauhaus, dove parlano di forma-funzione, ma partono ancora prima. Iniziano con la scuola di Francoforte. Voglio dire che, solamente una nazione che ha avuto come filosofo Heidegger poteva immaginare di dover mischiare a qualsiasi costo la forma e la funzione. E’ visibile, una sedia ha una sua funzione sicura, ed una forma più o meno sicura, però che io debba rinunciare alla bellezza della forma, in virtù della bontà della funzione, preferisco di no. Le due cose secondo me sono oggettive, una volta che hai rispettato gli schemi funzionali, devi automaticamente rispettare gli schemi della bellezza. Per essere provocatorio, nessuno di noi sceglie i propri partner perché gli intuisce come funzionali, forse ci sono altre bellezze che ci colpiscono.

ADC - Nel percorso formativo di uno studente, credo abbia una certa importanza, oltre il piano di studi, partecipare ad attività extra universitarie, ampliare i propri orizzonti, come ha fatto lei, abbracciando ciò che c’è oltre l’architettura e il design. C’è un libro o un artista che sente di voler consigliare ad uno studente?

 

PL - No, dovete essere semplicemente curiosi. Qualsiasi cosa vi circonda è frutto di cultura. La cultura è diversa dall’informazione, all’occhio, perché l’informazione è un modello molto piatto, noi possiamo essere informati su tutto, ma questo non vuol dire che abbiamo informazioni di cultura. La cultura è quello che ci circonda nelle cose più banali, camminare per strada, sentire per strada un profumo, un colore, un vestito, un assemblaggio strano, un’automobile, un film, musica. Non c’è bisogno di Dan Flavin fino a Michelangelo, alcune volte la cultura è qualcosa che ci circonda, un modello di curiosità. Se posso consigliarvi, muovetevi, lavorate durante gli studi e andate all’estero. Stare qui è un’ignominia. Non è una questione di fuga di cervelli, è una questione di cultura.

 

ADC - La nostra attuale ricerca indaga il rapporto tra architettura e felicità. L’architettura è ancora in grado di creare luoghi felici? Esiste un luogo, un progetto, che rappresenti la sua personale visione di architettura felice?

 

PL - Io non credo che le architetture possano costruire luoghi felici, questa credo sia una posizione spaventosamente arrogante. L’architettura non costruisce nulla, l’architettura è un mezzo per raggiungere un fine, ci sono delle architetture meglio riuscite, che in qualche maniera la possono mettere in condizioni di essere più bilanciato nei confronti dello spazio e della vita, ma io credo che sia tutto quanto interno alla nostra anima, non necessariamente una visione cattolica, ma una questione delle nostre capacità di comprendere la bellezza e di essere più felici. E’ chiaro, se vado al Corviale automaticamente sono triste, se vado allo ZEN di Palermo o alle Vele di Napoli, sono automaticamente triste, mentre se entro nel padiglione di Mies Van Der Rohe, se lo comprendo, mi potrebbe rendere felice, ma anche lì è questione di cultura e di opportunità. Quello che vorrei dire è che, come nel design, ma nessuno di noi, nemmeno da Architetti possiamo solo fare dei danni, fare dell’architettura molto brutta, ma nel caso riuscissimo a fare delle architetture appena passabili, quindi non distruttive, oggettivamente, poi la nostra capacità umana ci dà la capacità di percepire o non percepire.

 

ADC - C’è un progetto che lei percepisce come un’architettura felice?

 

PL - Come fanatico dell’architettura, ce ne sono tanti. Molti progetti mi rendono felice quando sono lì, il problema è proprio perché sono un fanatico, vedo tutti gli altri che invece mi intristiscono.

Piero Lissoni interview by Andrea Di Cinzio

© Andrea Di Cinzio for WMMQ

bottom of page