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Qual è il primo ricordo che le viene in mente legato alla Facoltà di Architettura di Pescara?

 

Di primi ricordi ce ne sono due, il primo è quando sono stato invitato nel 1985/1986, la Scuola di Architettura era ancora nella ex scuola  elementare Montessori di via Italica e fu organizzata una mostra di giovani architetti romani a cui venni invitato, seguì un dibattito, c’era mia figlia con me, a quel tempo aveva dieci anni, si era stesa sui primi tre sedili della facoltà, mentre io parlavo lei dormiva. Era una mostra di cui molti di coloro che esposero diventarono poi docenti della Facoltà, presentava il suo lavoro anche Carmen Andriani, c’era ABDR dove Paolo Desideri aveva già un ruolo a Pescara, Filippo Raimondo, Stefano Cordeschi che poi è diventato anche lui per un breve periodo didatta nella Facoltà. Il secondo ricordo è di quando diventai professore a contratto, quella fu la prima lezione che feci, sempre in Via Italica, io ero emozionatissimo, lavoravo già all’università come assistente di Terranova a Roma, ma non avevo mai fatto una lezione all’università, avevo fatto moltissime revisioni ma non lezioni e mi ricordo che quando iniziai a parlare iniziò a nevicare con fiocchi grandi come delle arance, nevicava in orizzontale, fu chiuso tutto, l’autostrada per qualche giorno, le scuole….io ho pensato… “bhe Dio non vuole che io faccia questo mestiere” un segnale inequivocabile! Poi per fortuna non è stato così.

 

Uno dei fenomeni che ha interessato la Facoltà di Architettura di Pescara fin dalle sue origini è stato quello della TENDENZA. Che cos’è la TENDENZA? e cosa ha rappresentato per lei?

 

Quando io sono arrivato nell’86 ad insegnare per la prima volta nella Facoltà di Architettura di Pescara c’era un gruppo molto forte di docenti che uscivano fuori da quella scuola. La tendenza la conoscevo bene per alcuni protagonisti, l’ho studiata, ho letto molti libri. Aldo Rossi, che era un amico di famiglia mi aveva proposto di laurearmi con lui a Venezia, ma io non volevo andarci perché mio padre insegnava lì. Quando arrivai a Pescara mi sembrava che da un punto di vista metodologico e conoscitivo la Tendenza avesse delle forti qualità e riuscisse a dare un metodo di lavoro e di ricerca a chi si accostava ad un mestiere meraviglioso ma allo stesso tempo sfuggente com’è l’architettura. Io penso che la Tendenza sia stata molto importante, non a caso è stato l’ultimo movimento culturale architettonico italiano che ha avuto una diffusione molto estesa anche in Europa e non solo. Nel momento in cui veniva applicata nel progetto, con un codice da rispettare, con poche variazioni, questo mi sembrava un limite forte e quindi essendo io culturalmente un eclettico ho molto combattuto questa seconda idea più che la prima. Mi sembrava che la Tendenza fosse ottima per avvicinarsi all’architettura, per entrarci dentro ma quando c’era da approfondire sul progetto tutto questo fosse troppo ideologico da una parte e poco curiose del resto del mondo dall’altra, ne presi le distanze, ripeto più che culturalmente proprio progettualmente, linguisticamente, formalmente. Io ero come Mao Tse-tungMao nella Campagna dei cento fiori.

 

Cosa pensa di aver lasciato in questa facoltà?

 

Penso che la Facoltà di Pescara in quegli anni sia stata un’occasione unica ed irripetibile. Primo perché si era tutti giovani, c’erano già delle personalità stabilizzate che avevano studiato con Aldo Rossi e Giorgio Grassi che lasciarono un segno profondo, poi c’era un gruppo di ragazzi, amici, che avevano a disposizione, più che potere, il poter fare! Facevamo corsi, mostre, viaggi…ricordo una mostra magnifica che oggi piacerebbe al MAXXI, con i disegni originali di Ludovico Quaroni che prendemmo dai suoi archivi a piene mani e c’erano i disegni dall’EUR alle Barene di San Giuliano…tutti esposti..che avevamo organizzato in 15giorni. Questo gruppo di giovani si comportava in una maniera responsabile ma senza troppi fronzoli accademici, eravamo come il gruppo della 2°B che era appena entrato nella stanza dei bottoni. Sono passato di grado e insegno in una scuola ancora di grande prestigio gli anni di Pescara dal punto di vista della forza e dell’entusiasmo sono irripetibili. Un’altra cosa interessante è che la facoltà di architettura in quegli anni era l’unica facoltà di architettura che si affacciava sull’Adriatico. Il bacino di utenza degli studenti andava dalla Puglia alla Romagna, la maggior parte veniva da fuori e sia gli studenti che i docenti usavano la città come fosse un campus. All’epoca Pescara era una brutta città in cui si viveva molto bene! Abbiamo aperto delle linee di ricerca sulla città diffusa, tentavamo di esaminare il fenomeno per quello che era e tutto il rapporto tra architettura ed infrastrutturra si è sviluppata a Pescara prima che in altri posti.

 

Nella sua carriera ha affrontato realtà accademiche diverse. Esistono dei caratteri distintivi riconoscibili nei diversi atenei? Se si quali sono?

 

Direi che da una parte si. Non so quanto tutto questo sia legato all’architettura, cioè penso che poi l’architettura si modifica con il tempo, dipende dalle persone e dai tempi che la scuola attraversa. C’è un tempo più affluente e più povero di apertura, di risprse e di politica culturale. Io sono più per l’analizzare le individualità e i prodotti più che le scuole. Mi ricordo che si diceva che ad esempio nella scuola di Roma si disegnava bene e si dice tutt’oggi, basta vedere un disegno di Anselmi, di Cordeschi o di Filippo Raimondo per rendersene conto, però all’interno di questo non si può dire che l’architettura di Anselmi o Cordeschi e Raimondo siamo uguali, direi proprio di no. Erano ancora più distanti allora che ora, la scuola di Venezia e di tipo morfologica, quella di Pescara sulla città diffusa, quella di Roma era archologia e disegno, però sono categorie che cambiano nel tempo. La scuola di architettura è una specie di “carta copiativa” della società ed è fortemente influenzata dalla sua mutazione. La società di vent’anni fa non è più quella di prima e quindi cambia anche la scuola di architettura.

 

Qualora dovesse tornare ad insegnare a Pescara, quali esperienze fatte cercherebbe di introdurre nella realtà del Dipartimento di Architettura?

 

Io ho un atteggiamento di discontinuità, ho sempre proceduto per salti che per continuità nella vita. Se tornassi a Pescara tenterei, come ho già tentato nella fine degli anni ’80, quando portammo con molta fatica Enric Miralles e Peter Eisenman, Rem Koohlaas, di portare un’apertura verso l’esterno, verso le altre scuole italiane ed europee. L’intento era quello di individuare persone emergenti e “nuovi” della cultura architettonica, spesso in contrasto con l’altra grande corrente culturale della facoltà che era quella della Tendenza. Potete immaginare la difficoltà di allora di mettere a confronto Giorgio Grassi e Enric Miralles? Era divertente però vedere l’uno e l’altro, anche per decidere in base alle proprie inclinazioni e le proprie passioni. Inoltre mi sono sempre occupato da diversi anni di organizzare Workshop con facoltà straniere in vari continenti. Si chiamano laboratori metropolitani. Credo che questa sia una buona maniera per il riconoscimento di alcune attività formative di uno studente. Un’altra è il Villard, una delle cose che abbiamo fondato con M.Ricci e A.Ferlenga negli anni del ’99. Potrei cercare di trovare lo sviluppo di sistemi locali per rendere effettivi gli studi una volta usciti dall’università. Avrei uno sguardo strabico, uno sguardo lontano ed uno vicino.

Aldo AYMONINO
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