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Pepe BARBIERI

Qual è il primo ricordo che le viene in mente legato alla Facoltà di Architettura di Pescara?

 

Una accesa moltitudine. Gli studenti affollati nell’aula più grande di “palazzo Perenich” per partecipare, come allora si usava, ai Consigli di Facoltà. Accesi dalla voglia di capire, di poter decidere, di chiedere “perché”. Erano gli anni 70. E sembra ora che questi “perché” non si debbano più porre. E’ sorprendente – non solo a Pescara – che gli studenti che oggi affrontano questo bellissimo e faticoso percorso di formazione, ( destinati però a scontrarsi con una realtà del mercato del lavoro che li mette al margine sia per l’alto e insostenibile numero dell’offerta : un architetto ogni 400 abitanti, forse il rapporto più basso del mondo occidentale; sia per la colpevole assenza di una vera “domanda di architettura” ) non chiedano, con forza, ragione delle modalità con cui questi percorsi sono costruiti, del loro rapporto con il mondo del lavoro e con la società. Le poche richieste vengono dalla ricerca di una maggiore efficienza  – domanda certo legittima -,  ma senza spingersi ad intaccare l’assetto complessivo. Una pericolosa mansuetudine che alcuni nel mondo della docenza ( anch’essi in ritardo) cercano oggi di superare con la volontà di mettere, in tutti i suoi diversi aspetti, in discussione l’attuale offerta formativa con lo scopo di costruire le condizioni per innalzarne le qualità e la rispondenza alle mutate caratteristiche della professione di architetto in Italia e all’Estero.

 

Uno dei fenomeni che ha interessato la Facoltà di Architettura di Pescara fin dalle sue origini è stato quello della TENDENZA. Che cos’è la TENDENZA? e cosa ha rappresentato per lei? Cosa pensa di aver lasciato in questa facoltà? Qualora dovesse tornare ad insegnare a Pescara, quali esperienze fatte cercherebbe di introdurre nella realtà del Dipartimento di Architettura?

 

 

Si. E’ ancora- forse ancora di più di allora - necessario per gli architetti riconoscersi in una tendenza . Proprio nel senso dell’adesione consapevole ad un progetto culturale che corrisponda al significato che dava a questo termine Ernesto Nathan Rogers alla fine degli anni ’50 e a cui poi si ispirò probabilmente Aldo Rossi nel denominare così quel programma culturale, così importante negli anni Sessanta e Settanta. Affermava Rogers che “ la parola continuità fu impressa sul vecchio titolo “ Casabella” nel novembre ‘53 per ricordare l’impegno assunto dalla nuova redazione attraverso l’utilizzo della “coscienza storica”, cioè la vera essenza della tradizione, nella precisa accettazione di una tendenza che per Pagano, Persico, come per noi, è nella eterna varietà dello spirito avversa ad ogni formalismo passato e presente. Dinamico proseguimento e non passiva ricopiatura: non maniera, non dogma, ma libera ricerca spregiudicata con costanza di metodo…

Non maniera, non dogma. Quello che poi, spesso accade - ed è accaduto in qualche modo anche nel caso della tendenza -  per tanti altre linee di pensiero e ricerca nel loro procedere nel tempo, e nel venir meno, negli epigoni, della spinta iniziale che ne aveva acceso il fuoco.

Ma sono scomparse le ragioni che avevano motivato la nascita di quella tendenza? E sono oggi venute meno, nel loro possibile ruolo, alcune di quelle posizioni e concezioni rispetto alle modalità, agli strumenti  e ai compiti del progetto di architettura?

Penso alle parole di Agostino Renna, ( per anni docente a Pescara)  uno dei più coerenti, sensibili ed impegnati protagonisti di quella stagione: occorre,diceva,affermare il ruolo dell’arte civile dell’architettura di fronte ad un inestinguibile  bisogno di città.

Inestinguibile bisogno di città. Bisogno che corrisponde anche ad un diritto alla città diciamo oggi, mentre misuriamo quanto è distante per tanti abitanti il raggiungimento di questo diritto. David Harvey: “diritto alla città è più di una libertà individuale ad accedere alle risorse offerte dall’urbe: è il diritto di cambiare noi stessi attraverso il cambiamento della città”.

 

Ma noi siamo ancora esattamente qui, di fronte al disastro di città dove non si realizza l’offerta di bellezza e di qualità di vita che l’architettura potrebbe assicurare. Dobbiamo prendere atto della sostanziale inefficacia delle diverse procedure e strumentazioni, che con il concorso delle differenti discipline avrebbero dovuto indirizzare le trasformazioni delle nostre città e dei nostri territori. Abbiamo oggi così, di fatto, un paese “senza architettura”, risultato, anche, dello sfasamento tra il tempo della trasformazione del territorio, quello della politica e quello della cultura. E’ un’assenza che richiede un’analisi e una revisione delle relazioni complesse con le attese collettive, con le gerarchie di valori socialmente condivisi, con i modelli di rapporto con altri saperi, con l’ineludibile materialità delle condizioni fisiche e documentali esistenti .

La ineffettualità  dell’architettura si riflette nell’assenza di una domanda qualificata. Una trasformazione virtuosa della città deve potersi alimentare dalla crescita di una domanda consapevole che indirizzi verso una visione condivisa il complesso itinerario delle scelte. Ma questa domanda assente deve essere attivata, mostrando che è possibile un altro modo di costruire la città rispetto alla sua produzione banale e frammentata.

Il destino della città non è solo una questione di architettura e urbanistica. E’ un interrogativo fondamentale, quanto mai attuale, sui significati da dare alle modalità con cui si costituisce e si può gestire un bene comune.- E’ la ricerca su come si attiva un percorso verso un  mondo sperato.

 

Nella stagione della tendenza era centrale  l’affermazione di Mies “ l’architettura è l’espressione visibile  di un punto di vista che altri desiderano condividere”.

Assumere consapevolmente un punto di vista e renderlo visibile è, direi più che mai anche in questo momento, un compito decisivo perché sia riconosciuto all’architettura e a noi architetti un ruolo in una fase così difficile della vita delle nostre società. E’ questo un momento in cui, nel nostro paese,  in risposta ad una profonda e molteplice crisi economica, sociale, politica, si sta cercando  di riscrivere le regole della nostra convivenza. Ci troviamo in un generale cambiamento di ciclo dicono gli esperti socio-economisti. E’ quindi fondamentale interrogarsi su cosa occorre fare perché anche l’architettura, per come viene praticata – per come può contribuire alla realizzazione del bene comune -  e  per come viene insegnata (anche con le necessarie innovazioni) possa svolgere quel compito fondamentale che, specialmente in una realtà  come la nostra, fin qui non si è esplicato.

Ma di fronte a questa domanda cruciale ci presentiamo con un quadro inadeguato di saperi e procedure che dobbiamo poter rimettere in discussione.

 

In questo quadro quali sono stati e quali, soprattutto, appaiono oggi i contributi fondamentali del  pensiero elaborato a più voci in quegli anni che possiamo considerare utili per il dibattito contemporaneo? Si possono raccogliere in tre questioni, si può dire, necessarie.

 

  1. La città. Il rapporto tra architettura e città. Il necessario fondamento urbano delle scelte progettuali. L’architettura presuppone la città. La città è il deposito e intreccio delle complessità che nutrono l’architettura permettendo l’identificazione dei temi. Ne derivano:  la concezione di una necessaria continuità nella costruzione della città.( la continuità di Rogers); la ricerca delle  ragioni contestuali delle scelte. E, quindi, il fondamentale rapporto tra analisi e progetto:la storia quale materiale dell’architettura. ( Rossi era contro tutti coloro che si accontentano di far funzionare la grande macchina del mondo, consapevole che del mondo andavano messi in scena i significati.) sfuggendo così  il pericolo della riduzione funzionalista della complessità urbana.Oggi  siamo ricondotti a questo approccio per la percezione condivisa di dovere operare su un mondo già costruito,e di doverne in        qualche modo proseguire e modificare o innovare la costruzione.  L'avvenuta costruzione del mondo obbliga a fissare di nuovo in modo  coordinato e compatibile il ruolo reciproco degli spazi aperti, della città compatta, della città estesa, dei luoghi emergenti dell'innovazione, degli spazi delle connessioni, dei nuovi luoghi della centralità urbana.Parole chiave: rigenerare, riciclare, sovrascrivere. Quindi necessità di una lettura critica dei contesti, dei sistemi relazionali che comprendono non solo i tradizionali oggetti architettonici, ma un insieme molteplice di materiali, strati, spessori, infrastrutture e soprattutto il suolo stesso – la sua forma e il suo spessore come fondamentale e prima infrastruttura che deve contribuire ad assicurare il necessario metabolismo della città.

  2. La teoria. Il nesso indispensabile tra teoria e progetto. Occorre superare la paura della teoria come apparato fondativo, cogente e normativo nei confronti del progetto e delle sue figure. Pensiamo ai trattati e alle asserzioni apodittiche del moderno : dove il cosa è l’architettura  si avvale di nozioni forti come verità, origine, fondamento, etica , utili a produrre un’assiomatica da cui sia possibile dedurre delle forme giuste ( appunto perché fondate, originarie, veritiere). E’ tuttavia necessario trovare nell’architettura una forma di pensiero che contiene caratteri generali e trasmissibili. Il percorso auspicato da De Carlo di una ricerca continua che si misuri sulla qualità del tessere piuttosto che su quella del suo risultato: il tessuto.Attenzione cioè al processo e non solo all’oggetto. Operare perché i saperi dell’architettura siano interrogati a supporto del processo delle decisioni.Per creare cioè le condizioni perché l’architettura sia. Il che vuol dire trovare i modi della condivisione di una visione di futuro che si costruisce con diversi gradi di libertà in più tempi da parte di più soggetti: ogni singola azione progettuale dovrebbe proporsi come parte  di un pensiero di futuro da proporre.

  3. Il linguaggio. Nel pensiero della tendenza si coglie un obiettivo di fondo: la necessità del contenimento dell’arbitrarietà dei linguaggi dell’architettura. Una necessità legata alla convinzione che per molti aspetti l’architettura sia nella sua essenza un’opera collettiva. Una gegenstandslose kunst : un’arte non rappresentazionale .A ben vedere questa è una delle connessioni più forti con l’ideologia del moderno:una riduzione del protagonismo delle figure: il silenzio miesiano.Una semplificazione della scrittura che non avrebbe dovuto essere tanto una cifra stilistica, come poi spesso è avvenuto, quanto una ricerca del carattere essenziale e, in un certo senso, necessario di forme, tesa a rivelare il loro ruolo nella costruzione di una spazialità di altro ordine: quella urbana o quella della costruzione del nuovo paesaggio urbano. Oggetti architettonici non protagonisti, ma servizio di una qualità configurativa tessuta nel gioco delle relazioni reciproche. Affermava Oud nel 1918 “ l’anarchia nell’attività architettonica , sia in senso a-estetico che in senso iperestetico, verrà sconfitta dall’applicazione di massa e cioè dall’espressione estetica del prodotto di massa. L’architetto compare qui come regista, come colui che mette in scena i prodotti di massa in un insieme architettonico: arte dei rapporti. Chi sentirà ancora il bisogno di esprimersi con eccessi estetici si potrà divertire con l’abitazione privata”. La chiara identificazione del fine dell’operare architettonico nella costruzione di un sistema di rapporti, rispetto all’ottenimento dei quali l’architetto compare come un regista. Una azione di più soggettiche devono condividere un ideale comune di utilità e bellezza. In Grassi, ma non solo, figure che in qualche modo non si concludono: non intendono essere consolatorie. Propongono degli interrogativi. Vogliono in qualche modo inquietare e coinvolgere nella necessità di affermareun punto di vista.La questione della tipologia. E’ stato uno dei nodi fondamentali del dibattito introdotto dalla tendenza . E si lega strettamente ai temi del linguaggio perché se – come credo si debba fare – si nega, seguendo Quatremere de Quincy nella distinzione tra modello e tipo, il carattere prescrittivo e rigido del tipo e se ne accetta invece ( come negli anni ’90 farà Marti Aris ) il valore di codice morfogenetico di organismi architettonici, già dotati, nella definizione tipologica,di un primario contenuto di identità di forma, ma che implica innumerevoli possibilità di declinazioni, il riferimento al tipo costruisce il legame con la memoria e l’immaginario collettivo. Attraverso una aperta idea di tipo si esplora l’adeguatezza del progetto rispetto ai temi urbani, concependo la stessa forma come una conoscenza da sviluppare lungo l’intero percorso del progetto e non come suo fine. Una comprensione strutturale della forma con cui assicurare il legame tra tipo e tema di architettura. Il superamento necessario di una visione metrica del controllo delle trasformazioni urbane da affidare invece ad una idea di tema urbano da ricondurre a identità tipomorfolgiche capaci di generare le necessarie figure utili nel loro ruolo relazionale.

 

Sono queste Ie questioni di cui io mi sono occupato, anche in base alla mia esperienza di studente a Roma con Ludovico Quaroni, cogliendo negli anni alcuni limiti e omissioni soprattutto rispetto alla necessità di interrogarsi su diverse sfide e domande poste dalla condizione contemporanea.  La comparsa di un nuovo abitante metropolitano che rompe la stabilità delle appartenenze identitarie e le complica in una appartenenza molteplice: città lunghe un’ora e un quarto le avevo chiamate, dove si genera una moltiplicazione di materiali che non sostituiscono, ma dilatano il vocabolario a disposizione dell’architetto. 

Sempre più il progetto contemporaneo deve misurarsi con la condizione di costituire la modificazione di un testo. Sempre più si percepisce che il suo strumento elettivo non può più essere riassunto nell’icasticità di un disegno, ma probabilmente in un complesso intreccio di scritture e notazioni capaci di dar conto del carattere eminentemente mentale e relazionale di uno spazio che anche nei piccoli centri è abitato da figure “metropolitane”. Sono notazioni e scritture portatrici di innovazioni per instaurare quelle “trattative discorsive” necessarie per attuare le trasformazioni desiderate delle città.  Trattative che, per non essere racchiuse in un autoreferente circuito di affari, debbono coinvolgere una rinnovata coscienza critica collettiva sul rapporto tra la città e l’architettura, rifiutando la marginalizzazione dell’architettura nella costruzione della città contemporanea.

E’ infatti questa la verità del gesto critico: la rottura di un ordine dato, della sua supposta ineluttabile continuità, per stabilire un nuovo nesso tra le cose. Per questo deve intervenire il soffio vitale di una visione diversa: ipotesi che anticipano la necessaria dimostrazione.

Questo è il compito del pensiero abduttivo: una mossa laterale. Anche inaspettata. Capace di mostrare, con la fresca e visibile presenza di un’alternativa “ trovata”, un’altra strada possibile.”(Barbieri 2013)

 

L’intervento su un mondo già costruito obbliga al coinvolgimento dei diversi soggetti che necessariamente dovranno prendere parte ad un processo complesso e articolato nel tempo, il cui esito e la cui qualità è determinata dalla possibilità di svilupparne l’iter come un pieno esercizio di democrazia urbana.

Al centro dei “materiali” della trasformazione – offerti al percorso delle scelte -  non può che esserci il disegno e la ridefinizione dello spazio pubblico, ma anche dei commons dei beni comuni,  nelle loro diverse articolazioni e declinazioni. Spazi pubblici o comuni che richiedono, in qualche modo, anche un tempo pubblico:  quello nel quale si deve sviluppare in modo democratico e aperto il processo di costruzione del territorio urbano.

La partecipazione è una condizione indispensabile per la realizzazione di un insieme di processi che richiede, in tutte le sue fasi, la collaborazione attiva della popolazione insediata. Per gli architetti questo significa mettere a disposizione  degli attori sociali, civili ed economici - e quindi, saper comunicare - più che un univoco disegno di intervento, un sistema aperto di dispositivi e azioni all’interno di un quadro di coerenza che delinei una generale ipotesi di visione della trasformazione urbana, in grado di modificarsi – in un meccanismo dialogico – nel processo partecipativo. Così è possibile  intercettare e valorizzare le reti degli attori privati di terzo settore o del tessuto economico e produttivo, come dei proprietari di abitazioni e dei fruitori dello spazio pubblico, mettendo in campo competenze a servizio dei territori e della loro capacità di diventare attori della trasformazione urbana.

 

Sono percorsi progettuali che alludono, anche per gli irrinunciabili temi posti dai diversi rischi ambientali, ad un’altra idea di città: che, tentativamente,  denomino ( e così alcuni altri ricercatori)  geo-città. Una città ri-fondata sulla terra, nelle sue molteplici accezioni, rispetto ai modi del suo uso e alle interpretazioni dei suoi valori. La terra, da un lato, come fondamentale e complessa  infrastruttura destinata ad assicurare la qualità dell’abitare. Dall’altro una città/terra-città/globo. Gomitolo stretto di vorticosi flussi materiali ed immateriali di cui dobbiamo ancora decifrare il senso che si deposita negli insediamenti.

 

E’ un grande e, a mio parere, indispensabile, campo di studio e sperimentazione che mi sembra possa raccogliere  alcune importanti linee di ricerca della scuola di Pescara , innovando, come auspicabile, un importante patrimonio di esperienze e risorse da mettere in rete riaffermando un riconoscibile carattere identitario di questa sede nella sua storia, ma anche nel suo futuro.

 

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