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Lectio magistralis: i ritmi della città contemporanea
Non serve tanto far funzionare la macchina del mondo, quanto più mettere in scena i significati di essa, introdurre il senso. Citando Aldo Rossi, ci si interroga sul ruolo dell’architetto nella contemporaneità e dell’architettura che deve avere la capacità di elaborare un’idea di città, assente in questo tempo.
Un insieme di trasformazioni difficilmente vivibili, insensibili ai saperi dell’architettura, che sono rimasti al margine delle mutazioni. È mancata un’incisività necessaria, dice il professore Pepe Barbieri, mentre sullo schermo scorrono le immagini dei lavori svolti nei vari anni sotto la sua guida, in una ricerca continua e costante sui temi del “Riciclo e delle infrastrutture ambientali”, con la volontà di guardare al futuro, alle prospettive necessarie. Ma con quale idea di città?
Si insegue una definizione di Geocittà, basata su un’ambiguità che trova la sua ricchezza nella duplice interpretazione del termine, da un lato guardando alla città fondata sulla Terra, come immensa infrastruttura e dall’altro lato, al mondo che diviene città, che si costituisce di mille filamenti e ritmi diversi intorno alle posizioni dei vari insediamenti.
La città intesa come un amalgama di elementi naturali e artificiali e materiali, di flussi porosi e fibrosi al contempo, con zone ispessite e solide, cariche di memoria e vaste zone investite piene di qualità, quasi liquide, fatte di elementi antitetici che hanno sciolto il legame con la visione tradizionalista tra naturale e artificiale. Ciò che Heidegger chiamava il compito dell’opera d’arte: rifondare un’apertura del mondo. Un universo ibrido in cui siamo chiamati a muoverci con il compito di attribuire significati.
La descrizione del paesaggio cui si era abituati a leggere viene a perdersi, poiché l’oggetto va sostituendosi via via all’immagine che la metropoli oggi ha. Il paesaggio e la metropoli non trovano più distinzione nella loro condizione di continuità e questo Rosseau lo anticipava già nel Settecento, riferendosi ad un esempio per lui chiaro come lo era la Svizzera, oramai estesa fino a diventare un unico grande agglomerato.
Cambia la ragione della natura stessa, che diventa parte attiva e interna alla città e il senso dello spazio e del tempo sono enormemente dilatati. Monet mostra una possibile relazione tra il mondo dell’artificio e quello naturale, infrangendo il confine e la distanza, costruendo un giardino ed entrandovi dentro, rompendo la cornice e riportando un’identità tra rappresentazione e azione.
C’è una crisi nel binomio spazio-tempo, come paradigma condiviso, tema ampiamente esplorato che porta ad un certo disinteresse verso il futuro che non può essere esplorato e nel suo complesso pensato. Una disaffezione dovuta a queste ragioni che conduce ad abitare spazi in modo disattento e negligente, per questo lo spazio immateriale si fa luogo dell’integrazione sociale, superando lo spazio materiale e stravolgendo l’usuale concezione di tempo.
Farinelli ricorda che la forma del tempo muta dal momento in cui l’uomo rinascimentale viene posto al centro della prospettiva, e per godere appena della prospettiva deve restare fermo come paralizzato. Poi nel barocco questo movimento esiste secondo una logica progressiva quasi come una fuga Beethoveniana, logica da cui siamo estranei perché forse contemporaneità non significa stare nello stesso tempo ma mettere insieme tanti tempi diversi.
Un tempo fatto di frammenti e vissuto da un abitante metropolitano con nuovi immaginari, un abitante “biomolteplice”, che vive tante realtà diverse che chiedono di risolversi tramite determinate forme d’architettura.
Riconosciamo davvero la collettività che abita questi spazi? E questa società sta svolgendo veramente un tempo comune condividendo gli spazi consapevolmente? Purtroppo no, perché il progetto contemporaneo si è concentrato più sul capire le cose e sui modi di intervenire su di esse che sulla vita degli uomini.
In questo scenario, il ruolo dell’architetto deve attivarsi nella ricerca di connessioni tra un insieme e il singolo elemento che va ad abitare quel sistema, in una regia di varianti e invarianti. C’è sì una complessità, ma è riferita al suo funzionamento, al metabolismo.
L’uomo è l’unità di grandezza della sua casa e questo dovrebbe avvenire per tutte le cose che lo riguardano. La città stessa, che in antichità fondava i propri isolati su un numero definito di passi, oggi deve costruire i suoi passi su quelli dell’uomo contemporaneo, che è necessariamente diverso da quello che l’ha preceduto. Il professore Rosario Pavia cita a proposito le parole di un antropologo che vede il camminare come un atto eccezionale e unico, nel quale il corpo passo dopo passo vacilla sull’orlo della catastrofe, perché l’unica cosa che impedisce all’essere umano di cadere è il movimento ritmico, prima su una gamba e poi sull’altra. Il nostro corpo si muove nello spazio inseguendo il proprio baricentro, in equilibrio dinamico, facendo cadere l’asse di gravitazione sempre su una base di appoggio, un appoggio mobile. Nel camminare percepiamo la forza che ci attrae a terra. Il suolo ribadisce la sua posizione fondamentale, serbatoio della sostanza materiale e fonte di vita di quella immateriale, figura che accoglie la città del mondo.
In questa situazione di crisi, se le università non sono i luoghi dove si produce un’idea di futuro, smettono eticamente il proprio compito. A tutti i costi, a tutti i livelli ci è richiesto un alto grado di immaginazione di futuro. Per lavorare domani in quest’ottica di Geocittà, come città ospitale, una lettura di Bauman che ricorda Kant.
“Se Il mondo è proprio un globo, non c’è niente da fare, via via sarà tutto abitato perché come escursione delle cose davvero inabitabili ognuno troverà posto su questo mondo in modo crescente; e abitare su questo mondo globo significa che non potremmo mai allontanarci l’uno dall’altro, tanto da non incontrare qualcun altro che ci sta vicino, perché siamo su una sfera. E dunque, l’unificazione delle specie umane in un’unica cittadinanza, civitas, è la destinazione che la natura stessa ha scelto per noi, l’orizzonte ultimo della nostra storia universale. Stimolati e guidati dalla ragione e dal nostro interesse all’autoconservazione siamo destinati a perseguire questo orizzonte e nella pienezza dei tempi a raggiungerlo. Presto o tardi, non rimarrà nessuno spazio libero di cui quelli tra noi che trovano i luoghi già popolati troppo limitati troppo scomodi ingombrati o disagevoli possono avventurarsi e dunque la natura ci impone di considerare l’ospitalità come il precetto supremo che tutti prima o poi dobbiamo abbracciare in egual misura così come dobbiamo cercare una soluzione alla lunga catena di prove ed errori, alle catastrofi che i nostri errori hanno provocato, alle rovine che queste catastrofi si sono lasciati dietro.”
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La cartografia
La cartografia geologica e geotematica costituisce una tappa fondamentale per la conoscenza del territorio, come elemento strategico e introduttivo alle attività di programmazione in materia di pianificazione e gestione del suolo e del sottosuolo.
La carta geologica rappresenta la base per ulteriori elaborazioni cartografiche, chiamate appunto cartografie geotematiche. Quindi questa carta costituisce il presupposto fondamentale per qualsiasi intervento finalizzato sia alla difesa del suolo, alla pianificazione territoriale ed alla previsione e prevenzione dei rischi naturali, sia alla progettazione di opere ed infrastrutture. Tramite le attività di rilevamento e gli studi di dettaglio, si acquisiscono un insieme di dati che, attraverso una sintesi ragionata, vengono poi rappresentati in carta con appositi colori, graficismi e simboli. Insieme alla legenda e agli schemi a corredo, una carta geologica offre un quadro generale della geologia dell’area, fornendo informazioni relative: 1) alla litologia (composizione, tessitura, struttura), contenuto fossilifero e mineralogico, età, genesi e modalità di messa in posto delle rocce; 2) rapporti geometrici (stratigrafici e tettonici) dei corpi rocciosi.
La cartografia geotematica, invece, rappresenta lo sviluppo e l’approfondimento della cartografia geologica di base in campi specifici, con l’obiettivo di fornire ulteriori informazioni per la conoscenza delle condizioni generali di rischio e di vulnerabilità del territorio. Voglio elencare alcuni esempi:
-La cartografia geomorfologica, che rappresenta le forme d’accumulo e d’erosione del rilievo, raffigura i caratteri morfografici e morfometrici; permette di interpretare l’origine in funzione dei processi geomorfici, endogeni ed esogeni e ne individua la sequenza cronologica, con particolare distinzione fra le forme attive e non attive.
- la cartografia idrogeologica, rappresenta le principali informazioni idrogeologiche esistenti su un determinato territorio. La finalità di una carta idrogeologica è di dare informazioni inerenti alle caratteristiche e tipologia delle falde acquifere, unità idrogeologiche e informazioni sugli acquiferi e i loro rapporti idrogeologici.
Per capire l’importanza della cartografia come elemento base nello studio e nell’approccio alla geologia, ho voluto chiedere al professore G.Rusciadelli, docente di geologia stratigrafica, cosa ne pensasse in merito:
” Fondamentalmente una carta geologica è la rappresentazione dei corpi geologici, dei loro limiti e delle loro forme. Rappresenta la base di qualunque tipo di indagine sul territorio, quindi è lo strumento base per la conoscenza geologica. È la necessità legata al nostro bisogno di visualizzare, elaborare e comunicare quelle che sono le caratteristiche dei corpi rocciosi”.
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