- interview
La sua formazione è letteraria e filosofica, da dove nasce la sua passione per l’arte?
FR: È difficile rispondere. Quando comincia una passione? Quando la si riconosce come tale, dunque come un amore o una necessità?
Io ho cominciato con la lettura. Ho letto con gioia e passione, con furia e ingordigia. Poi, ad un certo punto, quando ho cominciato a guardare opere d’arte, frequentare gallerie e musei, ho cominciato prima a cercare una corrispondenza con le immagini che avevo in testa, poi a “leggere” le opere d’arte, a esplorarle, a indagare in segreto, perché penso che ogni opera d’arte ci interroghi a partire dal segreto che essa nasconde e che al tempo stesso rivela, o almeno rende percepibile la sua esistenza.
Il ciclo di conferenze “Oltre il giardino” pone l’attenzione sui limiti della nostra disciplina.
Quanto è importante per un architetto che vive e lavora nella città, esplorare la multidisciplinarietà e di conseguenza guardare secondo “più punti di vista”?
FR: Credo che l’architettura costruisca l’opera come un punto di consistenza intorno al quale e sul quale incidono varie pratiche, e non solo quelle di natura inevitabilmente tecnica, ma anche la critica, la filosofia, l’estetica, e persino narrativa. L’opera architettonica nel suo farsi dunque è strutturalmente aperta alle varie discipline che in essa necessariamente incidono. È quanto ho detto nel seminario, “Il progetto come opera aperta”, e quanto mi sento di ribadire con forza. L’architetto deve essere un ibrido: un artista che si cala anche nella materia, come d’altronde facevano una volta anche i pittori. Costruisce lo spazio in cui proietta i suoi desideri, ma che sarà abitato soprattutto dai desideri dei suoi committenti, o addirittura - se è opera pubblica - da quella miriade di committenti che sono gli abitatori degli spazi pubblici.
Un peso e una responsabilità. Ma anche un senso profondo del proprio fare.
Lei ha insegnato Estetica allo IUAV di Venezia. Che valore potrebbe avere questa disciplina nelle Facoltà di Architettura di oggi?
FR: A mio giudizio un valore immenso. L’estetica è lo studio delle forme.
È uno studio filosofico che a mio giudizio ha addirittura più legittimità ad architettura che a filosofia. Perché il senso stesso del proprio operare, delle forme che diamo alle cose e al mondo è un compito primario proprio per l’architetto.
L’architettura, paradossalmente, proprio con il suo stare, scandisce e determina in modo mutevole lo spazio e il tempo. Propone un profilo che disegna anche, irrevocabilmente, non solo ciò che le è prossimo, non solo il suo “interno”, ma in qualche modo il suo “fuori”, vale a dire tutto l’esterno, potenzialmente tutto il mondo. La mano che ha tracciato i segni, che sono diventati una casa, ha inoltre stabilito un rapporto con il passato – il sito, la sua storia, la sua natura – per proiettarsi nel futuro, in un tempo in cui quella mano ha da tempo cessato di segnare sulla carta la mappa di un molteplice insieme di istanze, di bisogni e di desideri.
Il 6 Aprile ha presentato il suo nuovo libro “Il segreto di Manet” alla libreria Feltrinelli di Pescara. Quale segreto di Manet lascerebbe a noi studenti?
FR: I quadri di Manet mi hanno inquietato, tanto che a un certo punto ho dovuto cercare di penetrarli più a fondo. Il mio consiglio per voi studenti è fatevi incuriosire, fatevi inquietare, fatevi interrogare dalle opere di pittura, di poesia, di architettura.
Intervista a cura di Chiara Sileno per WOO_mezzometroquadro.
Ringraziamo Franco Rella per la sua immensa disponibilità.