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1995/PPC N° 15

 

Nella cornice di Piano Progetto Città, la Città Adriatica è parte di un contesto pluralista, ricco delle relazioni di una storia passata la cui memoria è ancora viva nelle architetture, nei paesaggi, nei linguaggi e nei costumi della città. Ci si interroga sulle ragioni di una inesauribile evanescenza del concetto di città Adriatica come costruzione o recupero dell’identità. Parallelamente si distinguono due identità: quella di un Adriatico strutturato dalle relazioni di poche città porto e quella, più attuale, diffusa sulla costa - conurbazione di terra più che di mare. In questo contesto e nel paesaggio adriatico “il progetto […] deve fare i conti con la liquida orizzontalità dell’acqua e le mutazioni senza fine dei suoi cieli e del suo vento che dà instabilità”.
 

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Il “principio” mediterraneo
Pepe Barbieri

 

Il “principio” mediterraneo percorre la storia dell’architettura e si offre, anche in terre lontane, a donare maggiore ricchezza e opportunità alle forme dell’abitare. Adottare questo principio vuol dire rispondere ad una domanda, a volte inconsapevole, di un più stretto legame tra corpo, movimento, vita individuale e collettiva e organizzazione dello spazio, così come testimoniato in molte diverse realtà dei centri del mediterraneo.Scriveva Ernesto Nathan Rogers: “Aalto non è soltanto il miglior architetto finlandese, ma, paradossalmente anche il miglior architetto italiano” Si potrebbe dire “architetto mediterraneo”. Il compito che Aalto si assume continuamente è quello di saldare /ibridare due tradizioni: coniugare “urbanità”- una idea di città variamente declinata nelle diverse culture mediterrane - e l’estesa natura del nord; recinto e radura; l’artificio rosso del laterizio e l’ondulazione verde della terra di Finlandia. Questo innesto, questa mescolanza di tonalità e strumenti espressivi, freddi e caldi, a partire dallo sguardo appassionato che sempre il Nord d’Europa rivolge al Mediterraneo, rende queste opere nostre contemporanee. Non si tratta di richiami romantici o imitazioni linguistiche. Si tratta di proporre ad una comunità, una più ricca e necessaria esperienza spaziale. Si intende apprendere e tradurre alcune modalità di straordinario valore nella costruzione di una organizzazione urbana in grado di far crescere la qualità dell’abitare e della convivenza.Aalto si dedicherà a costruire diverse nuove centralità urbane, luoghi inediti del movimento e dell’incontro . Per il centro di Helsinki l’intero materiale - edilizio, infrastrutturale, geomorfologico – esistente nell’area, (interpretata quasi come un unico grande manufatto complesso), viene sottoposto ad una generale trasformazione dove tutti gli elementi, comprese le strade e i parcheggi, vengono chiamati ad un nuovo ruolo riconoscibile nella costruzione di un centro città che si confronta con l’orditura della città in un dinamico rapporto con la natura. Il vuoto/ radura del lago Toolo si insinua nel corpo della città e diviene il riferimento di nuove misure e scansioni dello spazio urbano. Come più tardi qui Steven Holl ricorderà e richiamerà costruendo il duplice intreccio di vuoti del suo museo Chiasma.Ancora Aalto a Seinajoki progetta il centro non di una città, ma di una regione: non un vuoto nella densità di un bosco di alberi o di case, ma un vuoto tra altri vuoti: un luogo aperto su un orizzontale aperto paesaggio. Ma proprio questa perentoria affermazione del valore sacrale di questo speciale spazio vuoto lo apparenta con la più antica tradizione dei grandi luoghi pubblici della mediterraneità : questo è appunto un vuoto attivo, non designato dall’unità del perimetro ma investito della potenza di un grande magnete territoriale in grado di attrarre a se materiali diversi, costruendo una sequenza colloquiale e antimonumentale. Ai vuoti, pieni di senso e indispensabili nella struttura della “città pubblica” mediterranea, è inestricabilmente connessa una particolare modalità di organizzazione dei pieni. Forse riassumibile nella famosa lettura fatta da Walter Benjamin a proposito di Napoli : Porosità - Napoli come città porosa (1924 One way street ). Una immagine ripresa più tardi da Ernst Bloch che la estese a tutta Italia : la percepiva, appunto, porosa e barocca, e molto diversa dalla compostezza classica che lui si aspettava. Ma questa porosità non era per lui assenza di forma “ piuttosto una forma diversa, più profonda o tale per lo meno da non escludere nessun elemento del caos, come accade invece per l’arte classica”.Il riferimento alla lettura di Benjamin è esplicitamente presentato dagli autori di uno di alcuni recenti progetti di intervento sull’esistente, come in UK nel progetto per il Donnybrook Quarter a Londra di Peter Barber Architects . Progetti condotti in base ad indicazioni “anti-zoning” suggerite dalla Urban Task force diretta da Lord Rogers. Se accanto a porosità evochiamo altre parole chiave del principio mediterraneo come stratificazione – spessore – sequenza si comprende che è proprio nell’intervento sul costruito – con il costruito – che si apre un grande campo di occasioni in cui sperimentare l’enorme potenziale spaziale e sociale dell’utilizzazione dei dispositivi architettonici e urbani della “mediterraneità”. Si introduce così un ispessimento non solo fisico, ma anche temporale, in contesti edificati in un tempo troppo breve che ha neutralizzato i conflitti e l’effetto moltiplicativo di soggettività diverse, contrapponendo la razionalità degli oggetti al diverso sentire, in movimento, degli abitanti. Nei confronti della schematica serialità di tanta città costruita è’ necessario, invece che il progetto sappia introdurre le migliori condizioni di adattabilità ad un variare della domanda che ne possa prefigurare oltre la flessibilità, anche una molteplice possibilità evolutiva fino, persino, alla scomparsa e alla demolizione, per ottenere la produzione dei vuoti necessari in una città/ arcipelago che deve ritrovare il suo equilibrio ecologico ed energetico.In una condizione in cui è ormai acquisita la necessità di limitare il consumo del suolo, la riattivazione di un patrimonio, frutto della suddivisione semplificativa dello zoning – un patrimonio nel nostro paese, ma non solo, frutto di una troppo veloce edificazione soprattutto negli anni sessanta e settanta – richiede l’introduzione di episodi e articolazioni spaziali in grado di mitigare il carattere fortemente assertivo e tendenzialmente “monumentale” che è stato proprio di un intera stagione, ad esempio, di realizzazioni di Edilizia Residenziale Pubblica. Una monumentalità che decretava una irrimediabile alterità tra le “figure” dei nuovi quartieri e il confuso e vitale brulichio di forme della città spontanea cui, pure, spesso questi quartieri si legavano. I vuoti , gli interstizi possono rappresentare – come in questi casi londinesi - l’occasione per superare quella semplificata dialettica tra costruito e spazi aperti con l’introduzione di nuove “figure” in grado di rendere, letteralmente, più complesso il sistema di relazioni, anche percettive, mescolando più tonalità espressive, facendo “parlare lo sfondo” oggi muto. Si può così costruire un indispensabile nuovo paesaggio, risposta in continuo movimento all’esigenza di fare dell’intervento su una parte – un quartiere – lo strumento per reinterpretare e riqualificare un intero contesto, aprendo ad una visione multipolare, fluida e dinamica di una forma urbana, riconsiderata come un vibratile sistema di relazioni tra molti diversi materiali.E’ una modalità che introduce il tema del riuso, della nuova nominazione e significazione dell’esistente pensato o ri-pensato per accogliere stili e tempi diversi di vita. Un tema di enorme rilevanza soprattutto in quel frammentario e confuso, ma enormemente esteso, patrimonio del periurbano in cui la città compatta si apre attraverso il dialogo con la campagna ad una apparente, ma inespressa, porosità che va invece conquistata attraverso una attenta regia di rapporti tra distanze e prossimità. La prossimità esprime l’idea di una distinzione, ma nello stesso tempo di una familiarità tra le cose: l’altro è il prossimo. Diverso, ma formato all’origine da una stessa sostanza.La Complessità – una entità molteplice di pieghe, la piegatura infinita del Barocco di Deleuze - è tutt’altro che un dato della città contemporanea. E, piuttosto, una qualità da aggiungere e da raggiungere.Una complessità che si ottiene attraverso una composizione aperta esperita attraverso i flussi e il movimento. E’ cercata nell’approccio fenomenologico di Holl che si lega con evidenza alle esperienze del Team X – pensiamo ai grandi edifici città di Candilis, Jaosic e Woods ai Mat- buildings degli Smithson ; alla ricerca e al pensiero di De Carlo: la tortuosità; “in fondo l’architettura vuol dire proiettare il proprio corpo nello spazio”. Ma anche alle precedenti esperienze ibride e tattili, appunto, di Aalto in cui si mescola razionalità nordica e porosità meridionale. Di porosità parla anche Merleau Ponty proponendo una sorta di chiasma – il chiasma di Holl nella Helsinky di Aalto – tra le dimensioni spazio-temporali e il movimento inteso come flusso e non come passaggio da un punto ad un altro dello spazio oggettivato. Ne deriva per l’architettura una dimensione del fare in cui, conta più la Gestaltung. La formazione - il formare piuttosto che la Gestalt, la forma. Più la tessitura che il tessuto . Non la ricerca di una struttura, ma l’azione di una strutturazione che necessita di un soggetto in essa implicato, recettivo e attivo a un tempo, di un attore capace di patire e che esperendo esteticamente la città può mettere in atto quella commistione, quella circolarità dello spazio e del tempo in grado di rinnovare le nostre prospettive.La città mediterranea è una città che si costruisce come interpretazione condivisa delle diverse geografie realizzando i diversi contesti. Contesto: un participio passato. Con-testo: tessuto insieme.Un deposito di innumerevoli materiali, tracce, che, come in uno scavo archeologico, costantemente ci propone un interrogativo sul suo stesso senso. La sua irruzione inquietante nel presente. Il suo ruolo domani. Il “tessuto-insieme” può allora anche essere, declinato al futuro, un impegno, una attesa: una speranza da tessere-insieme. E’ questo un impegno che si oppone ad un sentire comune in cui si percepisce come impossibile il progetto della città e del territorio: non realizzabile la produzione consapevole di uno spazio da abitare in grado di ospitare nuove domande, nuovi modi di insediarsi. E’ possibile immaginare, invece, di intervenire attivando i contesti ereditati in una loro evoluzione che corrisponda a diversi modi di organizzazione – non data, nostalgicamente, per coesa e unitaria, ma anche vitalmente articolata e conflittuale - di una società di individui metropolitani. E’, peraltro, l’ottenimento di una “visione condivisa” un passaggio cruciale delle nuove strumentazioni che l’urbanistica va introducendo per colmare il distacco tra l’idea moderna di governo del territorio – la sua versione utopica e totalizzante – e la realtà dei modi della trasformazione. Un distacco che può essere superato, cercando di superane i limiti in un processo dialogico in cui viene data voce proprio ai contesti, in quanto complessa rete di relazioni fisiche e immateriali: stratificazioni diverse di immaginari; memorie; attese. Bauman ( in L’Etica in un mondo di consumatori ) ci ricorda che Kant, nel 1784, faceva notare che il pianeta in cui viviamo è una sfera e rifletteva sulle conseguenze di quella osservazione chiaramente banale, e cioè che tutti ci troviamo e ci muoviamo sulla superficie di questa sfera, che non abbiamo nessun altro posto dove andare e che dunque siamo destinati a vivere l’uno a fianco dell’altro e l’uno in compagnia dell’altro. Muovendoci su una superficie sferica, se cerchiamo di allontanarci da un lato, inevitabilmente ci avviciniamo all’altro. Qualunque tentativo di accrescere una distanza è destinato invariabilmente ad essere frustato. E dunque, rifletteva Kant, l’unificazione delle specie umane in un'unica cittadinanza è la destinazione che la Natura stessa ha scelto per noi, l’orizzonte ultimo della nostra storia universale. Presto o tardi, avvisava Kant, non rimarrà nessuno spazio libero in cui , quelli tra noi che trovano i luoghi già popolati troppo limitati – o troppo scomodi, ingombranti o disagevoli – possano avventurarsi. E dunque la Natura ci impone di considerare l’ospitalità come il precetto supremo che tutti prima o poi dobbiamo abbracciare, in egual misura, così come dobbiamo cercare una soluzione alla lunga catena di prove ed errori, alle catastrofi che i nostri errori hanno provocato e alle rovine che quelle catastrofi si sono lasciate dietro. Principio mediterraneo, allora, come accettazione, tradotta nelle forme e negli strumenti dell’architettura, di una idea aperta e colloquiale di accoglienza e di respiro condiviso, nei tanti mediterranei del mondo, sempre più “nutriti di movimento”. 

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